Quando i numeri di una disfatta hanno un volto e una storia
La disoccupazione e la povertà hanno un aspetto vistoso, ma l’imponenza dei dati, alla lunga, ne svilisce l’impatto, ne deprezza la portata.
L’uso e la consuetudine stemperano ogni precarietà.
Sono dati tecnici, non umani.
Ognuno di quei numeri, invece, ha un volto, un nome, una storia.
Non tutti per pudore, riservatezza, rinuncia hanno voglia di raccontarla, di renderla pubblica. Cioè far capire a ciascuno di noi, come sia accaduto che una di quelle migliaia di persone che è andata a dormire la sera con un lavoro e una vita “normale”, il giorno dopo si sia risvegliata con la vita stravolta, mutata, con una non più vita. Perdendo affetti, casa, sicurezza, rapporti umani e sociali.
Abbiamo effettuato una serie di interviste raccontando le vite normali di persone normali, che hanno acconsentito a ripercorrere la strada della loro disfatta, ma non quella della rinuncia. Volti, nomi, foto, fatti. Una declinazione del dolore senza vittimismi, lucida, circostanziata.
Ognuno di loro può essere uno di noi.
Avevamo intenzione di raccontare attraverso parole e immagini storie-simbolo perché i numeri non rimanessero più solo tali, perché si iniziasse anche a ragionare su questa reciprocità noi-loro che oggi riguarda tutti.
Storie vere con un volto. Parole ed emozioni, non solo cifre.
Abbiamo trovato persone disponibili, ed abbiamo raccolto alcune interviste grazie all’appoggio della Caritas di Savona e all’Opera San Francesco di Milano. Cercavamo di avere testimoni con storie semplici, ma credibili, diversificate, per evitare professionisti del precariato che rappresentano, ovviamente, un lato doloroso, ma non costituiscono il tema di questa ricerca.
Ci siamo ritrovati di fronte alla banalità dell’imprevedibile e al dolore dei giorni perduti, ma non alla rassegnazione e alla rinuncia.
Persone che, nonostante la disfatta, sono rimaste umane.
PERCHÉ HO SCRITTO
La mia rivoluzione, piccola, modesta, afona
Ho sempre riflettuto sui numeri, soprattutto su quelli di disoccupati, sottoccupati, dei precari, dei separati che dormono in auto, degli anziani (e non) che non raggiungono la fine del mese senza debiti.
Numeri apparentemente, ma in realtà persone, uomini e donne, con un volto e con una storia.
Avevo intenzione di raccontare storie-simbolo perché si potesse avviare un confronto su questa situazione perché i numeri non rimanessero più solo tali, ma perché si iniziasse, anche, a ragionare su questa reciprocità noi-loro che oggi riguarda tutti.
Storie vere con un volto. Parole ed emozioni, non cifre. Come professionista dell’informazione ne ho intervistati, come cittadino ne ho letto, studiato e valutato: disoccupati, sottoccupati, sono una costante del “mondo lavoro”, praticamente da sempre. Ma erano spunti del momento, situazioni, fatti, dettati da un’analisi complessiva o motivati da una situazione contingente: la chiusura di una fabbrica, uno sciopero. La rappresentazione numerica e sofferente di un trend dell’economia.
Il prevalere della finanza sui mercati, la delocalizzazione, la globalizzazione hanno poi sparigliato, ulteriormente, le carte senza contare che improvvide manovre politiche e sociali, hanno dilatato il fronte dell’esercito delle persone senza lavoro e senza domani.
Improvvisamente i numeri hanno iniziato a crescere con una progressione geometrica e la frana è diventata valanga, terremoto. Uno tsunami di proporzioni incontrollabili e devastanti. Irreversibile. Ma restavano dati, non era un elenco, ma cifre, grandi, grandissime, enormi, ma sempre e solo numeri. Un giorno mi hanno raccontato (e non era il primo caso), come una coppia di anziani (marito e moglie) si fosse rivolta a un agente immobiliare per cercare una casa in affitto che costasse poco. Meno di quello che stavano sostenendo in quel momento. Esigenze all’osso. Con la pensione di lui (Ferrovie) non riuscivano più a reggere il canone attuale e a mantenersi dignitosamente. “L’euro – ha detto il marito – ha dimezzato la pensione. Quando ho smesso di lavorare potevo vivere con dignità, adesso ho difficoltà per tutto”. Tolto l’affitto, vivendo di niente, non riuscivano a pagare luce, gas. Il canone televisivo un sogno. Era una storia. Ecco che quei numeri erano diventati persone, stati d’animo, emozioni. Vite.
“Politica” per Aristotele significa amministrazione della “polis” per il bene di tutti, la determinazione di uno spazio pubblico morale al quale tutti partecipano. Ecco io non avevo le possibilità strutturali di cambiare il sistema, di aiutare concretamente nessuno, ma avevo – ho – la possibilità di fare politica raccontando questi calvari, perché ogni persona e la sua storia, quella della sua famiglia dei bisogni e delle speranze, diventasse un caso politico.
Storie simbolo.
Non è stato facile, non semplice, non definitivo.
Non si tratta né di un’inchiesta-scandalo (è già scandaloso il tutto), né una ricerca di sensazionalismo.
Ho voluto solo raccontare, molto sobriamente, al limite del telegrafico, aiutato dalle fotografie e dalla sensibilità di Marcello Campora, come si possa lavorare tutta la vita e, nonostante la pensione, non si riesca sopravvivere. Oppure essere laureati con il massimo dei voti e lavare i cessi, oppure fare venti mestieri per mettere insieme il pranzo con la cena, oppure finire alla mensa della Caritas, avendo un lavoro, o avendolo perso.
Questo insieme non è la prima testimonianza sul fenomeno e – purtroppo- non sarà l’ultima. Ma se qualcuno si soffermerà a leggere mi piacerebbe che tutto questo diventasse un gesto politico, un’agorà morale nella quale porsi domande confrontarsi e, se possibile, trovare risposte. Se poi le risposte fossero strategie e posti di lavoro sarebbe il massimo, ma so che questa è una speranza disperata, come la storia economica e sociale di questo Paese.
Ci interessavano storie e testimonianze e volevamo fosse una bandiera. L’idea era quella di realizzare un libro che potesse essere un luogo fisico, dove foto e testi potessero essere confrontati, diventare oggetto di discussione ed elemento concreto di forza.
Nonostante i nostri sforzi e il nostro impegno non è stato possibile realizzare questo progetto. L’autopubblicazione avrebbe, poi, richiesto tempi lunghi e dilatati e noi non potevamo più aspettare. Abbiamo perciò deciso di rendere subito fruibile il nostro impegno.
Poiché la tecnologia lo consente, abbiamo allora deciso di realizzare un sito in grado di diventare un punto fermo e anche di partenza per ospitare sia le interviste sia le foto realizzate, ed eventualmente anche altre parti di questo progetto che non intendiamo abbandonare.
Il lato positivo di un sito è la possibilità di una maggiore diffusione dei contenuti, il loro costante aggiornamento, la sistematica accessibilità.
Questo sito è diventato un manifesto, la nostra denuncia. Lo dovevamo alla nostra idea, alla nostra incazzatura, alle persone che abbiamo intervistato e che, nobilmente, si sono prestate a questa pubblicazione. Il più importante risultato fino ad ora ottenuto, ma per noi ampiamente significativo, è l’aver notato dopo ogni incontro, oppure dopo aver visto il nostro lavoro, un senso di liberazione, di soddisfazione, in certi casi di fortissima emozione, da parte dell’intervistato.
Quasi di autoaffermazione. Il recupero di un ruolo, la consapevolezza della propria identità.
Il lavoro è fondamentale per la dignità individuale, per il ruolo che l’uomo ha nella società, per la sua autonomia, per il rispetto di se stesso.
E questo vale per i lavoratori attivi sia per quelli dispensati, per via dell’età, e relegati a luoghi defilati e alla cancellazione di una funzione.
Questo avviene solo nella nostra civiltà perdente e artefatta.
Il riferimento agli esperti, ai saggi, a braccia e menti ancora forti, in tutte le stagioni della nostra storia è stato utilizzato, non tanto per speculazioni, accumulo, difesa di ricchezze, ma per trasmissione dei saperi e delle esperienze. Ognuno, nel cammino dell’umanità, ha svolto un ruolo, declinato in modo differente, dentro il proprio contesto sociale.
La società attuale, invece, ci vuole ipervitaminici e voraci fino all’obesità nell’adolescenza, produttivi e sfruttati finché si è forti, possibilmente malati, instabili e fragili nella vecchiaia, sempre e comunque consumatori e obbedienti. Soprattutto teledipendenti.
Pensare a soggetti stabili, equilibrati, responsabili e solidali che attraversino il tempo e diano il loro contributo di esperienza e valori viene considerata un’eresia perché fuori dal merchandising.
Non sempre lavorare con gli altri, scrivere e progettare, come nel mio caso, è finalizzato al guadagno. Può accadere che esista il compiacimento della condivisione, la soddisfazione dell’insegnamento, dello scambio di esperienze, il piacere del racconto e della scrittura.
Il mercato e il potere non lo accettano, boicottano, snobbano. “Rottamazione” è un termine diventato slogan positivo, invece è una pietra tombale sulla qualità, sull’etica del lavoro, sui valori, sulla dignità. Sui sentimenti.
Questo progetto, minimale e molto parziale, vuol dimostrare che volendo, ribellarsi si può.
Piccola, modestissima, afona, forse inutile, ma questa è la mia rivoluzione.
Mario Muda
PERCHÉ HO FOTOGRAFATO
La verità senza filtri
Esiste un racconto negli occhi degli uomini e delle donne che non prevede alcun filtro, non può essere manipolato e nemmeno inventato, quel racconto è la verità.
Scovarlo, fermarlo in uno scatto è il mio impegno e forse la cosa che più mi interessa della fotografia perché credo che non si possa conoscere l’uomo senza averne compreso lo sguardo.
La fotografia è un grande strumento per dare rispetto alle persone perché permette di entrare in contatto con questa verità che diventa così inevitabilmente bellezza.
Per questo ho fotografato.
Marcello Campora