Raffaele Bortone

Milano ha lo sguardo della Medusa. Facile farsi attirare, difficile resisterle, impossibile da conquistare.

“A Milano, quando conosci qualcuno, la prima cosa che ti chiede è: che cosa fai? Non gli importa se sei bianco, rosso, a strisce. Giovane o vecchio. Solo quello che fai. È questo decide quanto conti. Il tuo valore, le tue qualità, i tuoi talenti e, qualche volta, il tuo prezzo.

Se, come me, sei disoccupato, se non hai lavoro, non sei nessuno: non una persona, solo un identificativo. Cessi di esistere. Diventi trasparente”

Raffaele Bortone, Milano la conosce bene. Non solo le vie, le piazze, i centri di potere, i luoghi raffinati di prestigio, le passerelle dei riflettori, la Milano da bere. Da tre anni la conosce meglio. Sicuramente, solo che cinque anni fa, non ci avrebbe mai creduto, ma adesso Raffaele sperimenta anche l’altra faccia di Milano, la faccia oscura, quella delle mense per i poveri, dei centri dove distribuiscono un pasto caldo, le sale maleodoranti dove si raccolgono i disperati in cerca di calore, dei luoghi del “non tempo” dove si bivacca fra un pasto e un altro, dove ci si rintana a scrutare l’orologio.

Mostra, come un prestigiatore con un mazzo di carte, i badge di accesso alle mense di carità, perché a Milano se vuoi mangiare un pasto caldo distribuito dalla beneficenza o hai un pass elettronico, in cui sei schedato, o salti.

Eppure fra quelli in fila, che aspettano, a seconda dei luoghi, un pasto a mezzogiorno o alla sera, Raffaele è un’eccezione, un caso raro, più che altro, un paradosso.

Raffaele Bortone, fra tutti quei disperati che avanzano lentamente verso l’accesso al self service è l’unico a possedere una casa.

In verità più che di una casa è il titolare di un mutuo che tutti i mesi deve rispettare  e che lo sfianca. Onorarlo con la banca, saldare tutte le rate, è diventato il suo incubo. Un incubo che, se gli va bene, durerà ancora nove anni.

E già perché solo ad allora, se arriverà a pagare l’ultima rata, l’alloggio sarà definitivamente suo. Ma uno che mangia alla mensa pubblica, che sopravvive di sacrifici, in che modo può far fronte ai ratei di un mutuo?

“Affitto casa mia, una stanza con la cucina e i servizi, a degli studenti. Nell’altra camera dormo io. Poi, per il resto, mi arrangio”.

Se questo pagare a ritmo, cercando di reggere il passo con le mandibole della banca, è un incubo, c’è un assillo ben maggiore, più implacabile, quasi sanguinoso che lo tormenta.

“Voi non avete idea cosa significhi affrontare le spese condominiali: riscaldamento, amministratore, portierato”. Altre centinaia di euro che ogni mese lo allontanano sempre di più dal suo sogno di possedere un alloggio. Ma che scatenano contro di lui, una guerra senza quartiere, quasi una caccia all’uomo degli altri condomini, dell’amministratore: richiami, scadenze, solleciti.

Quello di Raffaele Bortone, 51 anni, originario di Cesa, in provincia di Caserta, è un sogno che nasce prima di lui, con suo padre, muratore in proprio, che della sua professione ha sempre fatto un vanto e un onore spaccandosi lo schiena per garantire un reddito alla famiglia (“me lo ricordo che tornava a casa gobbo, schiantato dalla fatica, ma l’importante era lavorare, mantenere i suoi,  costruirsi una vecchiaia serena e dignitosa. Soprattutto, “farsi” una casa”).

E quel “farsi una casa” è stata un’eredità morale che Raffaele Bortone ha ricevuto, un obbligo, un impegno. E, adesso, ancora di più. Quello del padre, per lui è un dolore vivo, una ferita aperta. Perché con la famiglia, con il passare del tempo, con i fratelli, le cose non sono andate nel senso giusto. Ma se liti e rancori con i congiunti lo sconvolgono, la morte del padre prima, e  la malattia della madre che non può rivedere poi, diventano lacerazioni insanabili che lui, nel racconto rievoca sistematicamente, perché quello della casa, di un tetto suo sopra la testa, è stato un insegnamento, quasi un imperativo dei genitori, inspirato, inculcato, ribadito ogni giorno, per una vita.

Anche adesso che vita non è.

E se tutto il racconto della propria esistenza Raffaele Bortone lo affronta con tono distaccato, lucido, quasi sereno, il ricordo dei due genitori riaffiora costante, doloroso, dolente e la voce s’incrina e gli occhi si velano.

Forse è proprio la terra grama, forse è un futuro senza sbocchi, nonostante riuscisse a lavorare sistematicamente, forse era quel bisogno inderogabile di mattoni che gli reggessero anche l’anima, a spingere Bortone a cambiare vita. Cambiare in meglio, soprattutto vedendo la fatica del padre, ma anche la necessità di una svolta perché, pur lavorando intensamente e con assiduità, Raffaele al paese, non riusciva ad avere un posto fisso, con contributi regolari. Insomma era sempre una vita da bestia da soma, sfruttata e senza prospettive.

E così che Raffaele decide di emigrare. Muratore, magazziniere, addetto al facchinaggio. Il lavoro per lui si declina in tutti i modi, basta che ci sia.

Sono i primi anni ’90, internet ancora balbetta e allora Raffaele Bortone si affida a un giornale “specializzato”, “Secondamano”, che fra le altre cose propone anche offerte di lavoro. Risponde a un annuncio e parte per Milano.

Quanti prima di lui e quanti altri ancora.

“L’importante – ricorda Raffaele – è che ci fosse una prospettiva di occupazione: pulita e tutelata”.

Ma il sogno di un’attività regolare, con contributi e certezze neanche a Milano si trova.

Lavoro sì, ma sempre in nero, anche se a dire il vero pagano bene e regolarmente. Il ventaglio delle capacità manuali di Raffaele si amplia, oltre a tutto il resto impara anche a fare il facchino, mulettista, imbianchino, magazziniere. Gli incarichi non mancano e il gruzzolo cresce, ma non muta il sogno, che resta sempre quello, saldamente ancorato alla realtà, di comprarsi un alloggio e di pensare a un futuro solido, con i piedi per terra. Non c’è una motivazione sentimentale forte, nessuna donna che lo spinga o lo sostenga, che la fidanzata del paese ormai è un ricordo e qui, a Milano, le donne non sono un problema, ma nessuna è quella che ti condiziona la vita o capace di farti cambiare programma.

Per un ragazzo del Sud, uno dei tanti, la nebbia e il grigio di Milano potrebbero essere i soliti luoghi comuni, occasione e pretesto per un po’ di nostalgia. Ma per lui, quello che conta è il lavoro. Si dà da fare, s’industria, diventa persino “tecnico macchinista” e s’inserisce nelle attività del Teatro alla Scala. Roba da sgranare gli occhi e dilatare i sogni. Lui invece, si tiene stretto i contratti che riesce a strappare e, nonostante i riverberi di una Milano straordinaria che gli danza sotto gli occhi sulle punte della Fracci, non si arrende e continua a cercare. L’obbiettivo è sempre quello:  basta contratti a termine o a chiamata, quello che vuole è un posto fisso, con stipendio regolare.

E così, anche quando pesca il jolly di un lavoro a tempo indeterminato, in una portineria come guardia non armata, lo tiene fino a quando non trova qualcosa che economicamente gli dia di più e con maggiori prospettive.

Milano ha una serie infinita di porte: basta imboccare quella giusta e subito si respira un’aria diversa. All’inizio degli anni Duemila, per esempio, riesce a farsi assumere da una cooperativa che gestisce i magazzini dell’Esselunga. Lavoro pulito, costante, anche molto redditizio soprattutto se sei disponibile – e Raffaele lo è – a orari difficili e straordinari massacranti.

“Un Natale – ricorda Raffale – ho preso una busta paga da 4 milioni e 850mila lire. Si lavorava duro, è vero, però avevi soddisfazioni economiche che non ho mai più ottenuto”.

E così il sogno della casa diventa un po’ più concreto, tangibile, non è più solo un ideale, un’aspirazione, ma si trasforma proprio in un progetto di vita.

Lui non si ferma, diciamo che la crescita professionale è quella legata alle attività che fa e che potrebbe fare. Così studia, s’impegna, consegue la patente A.B.C. D e K,  e poi ottiene la carta di qualificazione conducente prevista per chi svolge attività di trasporto per conto terzi e inizia a lavorare nella distribuzione dei generi alimentari e nel 2002, garanti suo padre e sua madre, investendo tutti i suoi risparmi e ipotecando il proprio futuro si compra un bilocale: 2 camere, 1 cucina, 1 bagno.

Una casa tutta sua. Il sogno è minimal, l’impegno per uno come lui grandissimo, ma questa è Milano e la soddisfazione non ha confine.

È forte, deciso, e allora eccolo ripartire con determinazione e costanza, ma anche con lucidità e, soprattutto, coraggio.

Raggiunto l’obbiettivo della casa quello che serve, adesso, è un lavoro fisso, che consenta di pagare il mutuo e di sopravvivere con dignità, senza troppe rinunce. Si fa presto a dire, ma 525 euro ogni mese, fino al 2027, sono una fila di soldi che arriva fino al cielo. Potrebbe scoraggiarsi chiunque, ma non uno che ha preso il treno con un giornale di annunci in mano, con – come nei film – l’offerta cerchiata con la penna, ed è salito a Milano a coronare l’impegno preso con se stesso e con i genitori.

E se anche i soldi da versare arrivano davvero al cielo, poco conta se il cielo, all’improvviso, lo puoi toccare con un dito.

Il lavoro che trova, infatti, lo porta in paradiso.

Dopo tanto peregrinare è assunto come guardia giurata armata per un’azienda importante, una delle leader del settore.

E Milano che era solo fatica, orari durissimi e stanchezza, diventa anche la Milano degli spot, delle luci sfavillanti, della musica, del lavoro gratificante. Una vetrina lucente.

Fare la guardia giurata ha il fascino di  essere ogni giorno in un posto differente con una missione diversa: controlli, sorveglianza, tutela, scorte. Ma anche assistenza sui luoghi di festa, protezione  a persone importanti.

Per nove lunghissimi anni, Raffaele Bortone vive una vita quasi da film. Lo stipendio corre, il lavoro gli piace, i giorni trascorrono con l’adrenalina al massimo.

I rapporti con la famiglia di origine, non sono al meglio, anzi, con il passare del tempo si deteriorano ancora di più e certamente non migliorano con la morte del padre. Raffaele si aggrappa ai ricordi e alle promesse, ma ormai il filo che lo lega ai luoghi d’origine è solo costituito dall’affetto per i genitori e per gli impegni morali che ha preso con loro. La morte recide ogni legame fisico e restano solo i vincoli del cuore.

”Certe volte sarebbe stato facile – racconta – nelle difficoltà più dure, nella solitudine, nella fatica, dire mando tutto al diavolo. Vendo e mi godo la vita. Non ho famiglia, non ho figli. Non devo niente a nessuno. Invece ho fatto una promessa: prima a mio padre e poi alla mamma: non venderò mai la casa. Lei me l’ha raccomandato sempre, quasi una supplica. E vendere, anche adesso, non potrei mai”.

Solitudine, a Milano, se vuoi non sei mai solo, ma questo non vuol dire che tu possa essere felice. Però se ti sai adattare, se impari a conoscerla, Milano ti offre un sacco di opportunità, un mare di occasioni.

E poi c’è il lavoro. Ogni giorno diverso, importante. “ Mi piaceva, mi ritenevo arrivato – spiega Raffaele Bortone – per come mi consideravano, per come mi affidassero anche incarichi delicati, non da tutti. Mansioni di fiducia, qualche volta rischiose, molto spesso di discrezione e affidabilità. Mi dava una grande soddisfazione il rapporto con certi clienti, che mi trattavano con rispetto, amichevolmente. Io non volevo mai strafare, sapevo stare al mio posto. Però mi sentivo considerato, valorizzato. Era impegnativo, ma avevo trovato la mia strada, la mia giusta dimensione”.

Le luci della vetrina dorata, però, improvvisamente si spengono.

Raffaele Bortone, scandisce la data come quella di un lutto. Il 14 dicembre del 2014 perde il lavoro.

Una mazzata, il cielo che toccava con un dito gli cade addosso e la vita dai colori vivi diventa improvvisamente in bianco e nero.

“Ho vissuto un po’ con il sussidio – rievoca con amarezza che  sembra distacco, ma la voce tradisce il rodimento – ma poi è finito presto. Ho cercato altri lavori, ho provato a fare di tutto. Ma la gente che mi cercava quando giravo armato e avevo la mia divisa, adesso non ti saluta più. Prima facevano a gara per offrirti da bere e adesso scantonano, si girano dall’altra parte”.

“Quando parlo con qualcuno e gli racconto quello che è successo – prosegue Bortone -, stenta a credere che sia potuto accadere. Però è successo. Da una vita regolare a una vita senza speranza. E così, ogni mattina, io ho il problema di dove mangio, di dove posso andare a cercare un lavoro, perché a 51 anni non ti prende più nessuno. Ti hanno rottamato senza nemmeno sapere quanto valevi. Però io ho fiducia in Milano. Milano non può tradire. Offre sempre occasioni a tutti. Se uno s’impegna, se si dà da fare, o prima o poi ci riesce. Ritorna in sella. Lo devo a mio padre”.

Raffaele Bortone non si rassegna. Sono tre anni che ogni mattina, barba e doccia, camicia pulita riparte all’assalto della città. Agenzie, sindacati, enti di assistenza. Ogni giorno la questua è una via crucis. “Milano non mi tradirà –  si accanisce – sono sicuro che riuscirò ad avere un nuovo lavoro, non sarà bello e importante come l’ultimo, ma sicuramente troverò qualcosa per fare fronte agli impegni. Mangerò alla mensa per altri nove anni se occorre. Ma il mutuo non lo perdo. Con l’affitto degli studenti riesco a placare la banca, ma l’emorragia del condominio, non so proprio come fermarla. Ma io non mi arrendo: lo devo ai miei genitori”.

“Con la mamma – riprende il filo dei ricordi e del dolore – non riesco a parlare: è inchiodata a una sedie a rotelle e io non ritorno al paese. L’ultima volta che ci siamo sentiti, sapendo dei miei problemi, mi ha implorato di non vendere la casa. Di resistere alla tentazione: perché un uomo senza un sogno non ha ragione di vivere.  Perde il rispetto. A parte che non posso, ma sarebbe come buttare al vento quasi trent’anni di fatiche, miei e dei miei. E poi…”

Raffaele Bortone prende tempo, raccoglie tutto il suo coraggio.

È sbarbato, pulito, in ordine, sembra uno che stia per andare in ufficio e non che abbia appena finito la coda alla mensa dell’Opera di San Francesco. Invece è uno dei tanti che non sa come passare un pomeriggio al caldo, senza instupidirsi nel non fare nulla, prima di rinchiudersi nella sua stanza blindata per un’altra notte di ansie e incubi.

”E poi – se la volete sapere tutta – è questa casa che mi ha salvato. Difenderla, portare avanti le promesse fatte ai miei, non regalarla alla banca, mi ha aiutato a superare tutta la merda che mi è piovuta addosso. Se mi sto salvando dall’abisso morale e fisico lo devo solo alla casa. Al sogno di tenerla”.

 

 

 

Autunno 2017

 

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